Professoressa ordinaria di Diritto Ecclesiastico, Canonico e Comparato delle Religioni, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Trento
Grazie a Roberto per l’attenzione che ha sempre riservato alle materie che insegno, per aver condiviso attraverso i suoi interessi e le sue curiosità tante iniziative e per aver sollecitato la nostra Università ad essere tra le prime in Italia ad attivare prima un corso di Diritto ecclesiastico comparato e successivamente un corso di Diritto comparato delle religioni. Questo ha portato non a trascurare gli insegnamenti più tradizionali dell’area, Diritto ecclesiastico e Diritto canonico, ma ad aprire nuove strade e a percorrerle sempre certi del suo sostegno.
Il rapporto esistente tra diritto e religione nei paesi islamici può risultare di non sempre facile interpretazione per un giurista di formazione occidentale che voglia comprendere una realtà profondamente differente utilizzando le categorie per lui più familiari. Il rischio, che spesso diventa un errore di metodo tale da condurre a risultati fuorvianti, è quello di non aver sempre ben presente che il costituzionalismo occidentale tende a dar conto solamente di una parte e di un tipo di rapporto tra il diritto e - anche ma non solo - le religioni.
Un esempio assai significativo è l’accettazione pacifica del principio cristiano “a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” che ha connotato il processo di secolarizzazione dei diritti occidentali, producendo una netta distinzione tra norma religiosa e norma statale. Un processo che è stato alla base della separazione del potere spirituale da quello temporale, della elaborazione e della diffusa accettazione del principio di laicità dello stato e del riconoscimento del diritto di libertà religiosa.
Principi e processi, quelli appena descritti, che non hanno invece coinvolto - se non in modo marginale - i paesi a maggioranza musulmana che, coerentemente con i principi islamici, tendono invece a non delimitare nettamente ciò che è di Dio da ciò che è di Cesare, a sovrapporre il potere spirituale al potere temporale, e di conseguenza a non riconoscere la laicità dello stato come un valore e a porre limiti all’esercizio del diritto di libertà religiosa.
Questa differente evoluzione del rapporto diritto-religione, il cui approfondimento richiederebbe molto più dello spazio che verrà qui dedicato, trae le sue origini per un verso dalle diverse vicende storico politiche, ma è principalmente radicata nelle specificità dell’Islam. L’Islam infatti non è solo una religione, è anche una cultura, un assetto di potere, “una concezione della vita, del mondo, della società” ma certo è anche una religione che detta norme sia di tipo spirituale che di tipo temporale, disciplinando ad esempio oltre allo statuto personale, anche i contratti, le successioni, i delitti e le pene, e che nel corso del tempo ha organizzato queste regole dando vita ad un complesso ed originale ordinamento giuridico. Le costituzioni degli stati islamici in vario modo richiamano come fonte del diritto la sharia, l’insieme delle norme dettate dalle fonti del diritto religioso, ed è proprio questa combinazione tra fonti giuridiche statali e fonti religiose che ha assunto forme differenti ed ha fatto prendere all’Islam, come riflettendosi in un prisma, tante diverse sfaccettature fino a farlo diventare “gli Islam” (1). Perché le stesse norme religiose si trovano, oggi così come avvenuto in passato, ad essere applicate a realtà profondamente diverse, ad interagire con tradizioni culturali differenti così che, come ha avuto modo di affermare Franco Cardini, “esiste una pluralità di Islam, che hanno coscienza dell’unità profonda che lega l’umma di tutti i credenti ma che al tempo stesso si sono sviluppati lungo la storia in forme e secondo caratteri diversi”.
È necessario infatti considerare che anche per gli stati che si definiscono islamici e dettano norme che si richiamano alla sharia, l’applicazione della legge religiosa non è mai automatica e uguale a se stessa. Gli stati rileggono la legge islamica alla luce della propria realtà, adattandola e trasformando il diritto musulmano tradizionale o classico che dir si voglia, per farlo divenire il diritto di quel singolo stato.
Ma mentre il diritto dello stato e degli stati, attraverso l’intervento del legislatore può essere modificato, registrando i cambiamenti della società e quindi evolvendosi facilmente, le norme religiose al contrario, essendo espressione di precetti di natura divina, tendono per loro natura ad una fissità che può trovare modo di evolversi solo attraverso l’interpretazione. Una operazione che presenta limiti oggettivi, ma che assume per l’Islam un’importanza particolare, visto che, in assenza di una gerarchia e di un’autorità centrale, è proprio il ruolo delle diverse scuole interpretative ad aver consentito di giungere a risultati talvolta piuttosto distanti tra di loro.
Nell’orizzonte dei Paesi nord-africani il Marocco costituisce, peraltro, un caso certamente singolare e forse unico. Si tratta, probabilmente, del più “liberale” e “moderno” tra i Paesi arabi, per quanto il suo sistema normativo risulti perennemente in bilico tra modernità e tradizione, tra continuità e cambiamento, tra l’adozione dei principi democratici (quelli, in sostanza, consacrati nelle Carte e nei documenti internazionali) e l’attaccamento alla centralità anche politica della religione islamica.
Se guardiamo alla Carta costituzionale del Marocco, questo particolare rapporto tra diritto e religione che si è sinteticamente cercato di descrivere acquista maggiore concretezza.
In base alla Costituzione del 2011, si riafferma il modello di uno stato dichiaratamente confessionale, con l’Islam come religione di stato e un monarca al quale spetta anche il titolo di Principe dei credenti.
Questo essere l’Islam la religione alla quale appartiene il 98% della popolazione da un lato attribuisce ai principi islamici e all’identità religiosa del regno una particolare forza di resistenza passiva, tanto da essere definiti “come caratteristiche immutabili del nuovo sistema ordinamentale”, ma al tempo stesso non impedisce che nel preambolo della Costituzione questa preminenza della religione islamica sia bilanciata dall’“attaccamento del popolo marocchino ai valori di apertura, moderazione, di tolleranza e di dialogo per la reciproca comprensione fra le culture e le civiltà del mondo”. Una Costituzione che al suo interno rivela una tensione evidente tra aspirazioni laico-liberali e tendenze marcatamente confessioniste dalle quali non si può comunque prescindere. Di qui lo sforzo costante da parte del potere politico di coniugare i principi dell’Islam, religione di Stato, con l’esigenza di legiferare nel senso moderno del termine, ossia nel rispetto dei valori e dei principi ispirati dalla tradizione del costituzionalismo liberale; sforzo che risulta particolarmente evidente dall’insieme delle riforme intraprese dall’attuale sovrano Mohammed VI, che si propongono l’obiettivo della modernizzazione della società marocchina, con innovazioni di impronta liberale, perseguite senza, tuttavia, “mai mettere in discussione i tradizionali elementi religiosi e identitari del Regno”.
L’influenza dei precetti religiosi nel campo del diritto, in Marocco come in ogni Stato islamico, risulta, del resto, molto estesa, toccando ambiti e livelli molteplici. Nel Regno maghrebino, tuttavia, essa assume una veste in qualche modo peculiare, in ragione della singolarità del legame tra religione e monarchia che caratterizza il Paese, nel quale non solo l’Islam è la religione ufficiale dello Stato (come ribadito dalle diverse Costituzioni succedutesi nel tempo), ma il sovrano - potendo vantare una discendenza diretta dalla dinastia alawita e, dunque, dal profeta Muhammad, assume anche il ruolo di “principe (o comandante) dei credenti”: questo fa di lui il custode dei principi islamici, dell’unità dello Stato e della continuità istituzionale, e, dunque, contemporaneamente la guida politica e al tempo stesso religiosa del Paese. È in questa veste infatti che il re presiede anche il Consiglio Superiore degli Ulema (costituzionalizzato dal richiamo inserito nell’art. 41), considerati i depositari e tutori della legge religiosa islamica e la massima autorità spirituale del Paese.
Una commistione tra diritto e religione di tutta evidenza sul piano costituzionale ma che coinvolge l’intera applicazione ed interpretazione del diritto religioso declinato secondo l’interpretazione della scuola malikita, rappresentativa di un Islam che si qualifica come “moderato” e che all’art. 3 della Costituzione pur riconoscendo l’Islam come religione di stato, garantisce a tutti il libero esercizio del culto. Una garanzia che è però ben lontana dal riconoscimento pieno della libertà religiosa, intesa ad esempio come comprensiva del diritto di modificare la propria appartenenza confessionale, di abbracciare una confessione religiosa diversa dall’Islam, o del diritto per una donna musulmana di sposare un uomo non musulmano.
Un esempio ancor più evidente di questa commistione si può evidenziare nell’art. 19 della Costituzione che, pur affermando l’esigenza di rispettare l’eguaglianza di genere, ribadisce l’inviolabilità dell’identità marocchina, così come definita dalla tradizione islamica. L’art. 19 Cost. afferma infatti che “l’uomo e la donna godono dei diritti e delle libertà a carattere civile, politico, economico, sociale, culturale e ambientale, affermati nel Titolo II (Libertés et droits fondamentaux) della Carta nonché nelle Convenzioni e nei Patti internazionali debitamente ratificati” con anche la previsione di un’apposita “Autorità per la parità e la lotta a tutte le forme di discriminazione”. Nello stesso articolo si afferma però che la tutela di tali diritti e di tali libertà deve comunque accordarsi al “rispetto” di non meglio definite “constanti delle leggi del Regno marocchino (des constantes et des lois du Royaume)”. Quelle stesse costanti che sono sempre state interpretate come indissolubilmente legate ai principi della religione islamica.
L’art. 19 della Costituzione viene quindi ad aggiungere al rapporto diritto-religione così come abbiamo provato a chiarire un ulteriore elemento: la parità di genere, così come abbiamo però detto essere delimitata. Uguali quindi formalmente ma sostanzialmente ancorati ad un modello di eguaglianza che non può che essere coerente al rispetto delle tradizioni.
Non si può prescindere infatti dal tener presente che nei paesi a maggioranza islamica, in particolar modo in quelli con un passato coloniale, parte del diritto si è sviluppato ed evoluto seguendo i modelli occidentali (ad es. i codici di commercio) mentre le materie disciplinate dal c.d. statuto personale sono rimaste sostanzialmente escluse dai processi di secolarizzazione, rimanendo, salvo sporadiche eccezioni, fortemente vincolate al diritto religioso. Indipendentemente quindi dalle differenti modalità di applicazione attuate negli Stati a maggioranza islamica (che possono essere anche molto varie), sono comunque le fonti shiaraitiche a costituire il fondamento del modello di matrimonio e di famiglia e quindi a disegnare il ruolo della donna e, in quanto recepite in larga parte nella legislazione anche dai paesi più “laici”, a determinare la condizione giuridica delle donne nelle società islamiche. In queste fonti che, per la loro diretta origine coranica sono considerate norme sacre di origine divina, e in quanto tali immutabili, si parte dall’assunto della complementarietà dell’uomo e della donna, negandone però in radice l’eguaglianza. Una mancata accettazione motivata anche dal rifiuto dell’approccio individualista, ritenuto contrastante con l’impostazione islamica della famiglia costruita sulla base di relazioni comunitarie e considerata soggetto di diritto autonomo prioritaria rispetto ai diritti del singolo che ne è parte. E sono appunto i vincoli imposti dal rispetto delle norme religiose, ad aver, anche nei paesi nei quali si sono portate a termine importanti operazioni di modernizzazione del diritto di famiglia, di fatto però impedito di vietare alcuni istituti, quali il ripudio e la poligamia, proprio perché radicati nel diritto divino.
Prendendo in esame l’esperienza del Marocco, le problematiche sottese a questo rapporto diritto-religione risultano di tutta evidenza. Prima della riforma del Codice di Famiglia marocchino (Mudawwana al-ʿUsra) intervenuta nel 2004 era in vigore un Codice di Statuto Personale (Mudawwana al-ahwal al-shakhṣiyya), basato esclusivamente sul diritto islamico, che concedeva alle donne diritti limitati e le poneva in una condizione di grande vulnerabilità.
Il riformato Codice di Famiglia marocchino (Mudawwana al-ʿUsra) del 2004 regola le relazioni tra uomini e donne in maniera certamente più equa rispetto al codice precedente, ponendo i due coniugi allo stesso livello all’interno della famiglia (quanto meno da un punto di vista formale),e abolendo il dovere di obbedienza della moglie al marito, così come per la donna maggiorenne l’obbligo di avvalersi del wali, il tutore matrimoniale. Le riforme più significative hanno però riguardato l’introduzione di una serie di limitazioni alla poligamia, di fatto divenuta difficilmente praticabile, e alle modalità del ripudio, che non può più avvenire in maniera esclusivamente verbale ma deve seguire una precisa procedura giudiziaria affinché sia considerato legale. Anche la possibilità per le donne di ricorrere al divorzio giudiziario è stata riconosciuta in un’ampia serie di casi.
Non si può certo negare che la riforma del codice di famiglia del 2004, sia stata per molti aspetti fortemente innovativa, anche se occorre però rilevare come non sia stata sufficiente a superare alcuni limiti considerati sostanzialmente invalicabili, quali ad esempio tra gli altri la disparità di trattamento tra uomini e donne in materia di successioni. Ciò che ha reso possibile, costituzionalmente compatibile e socialmente accettabile l’importante, seppure non radicale cambiamento, è stato però l’inserimento della riforma all’interno di una cornice islamica tramite il ricorso all’ijtihad, ossia lo sforzo ermeneutico nell’interpretazione delle fonti del diritto islamico, che ha permesso una lettura nuova e più moderna dei testi sacri dell’Islam, senza per questo abbandonarlo.
Una riforma frutto del compromesso tra modernità e tradizione che ha certamente migliorato la condizione femminile, ampliandone rispetto al passato i diritti e le tutele, ma sempre nel rispetto dell’Islam. Un codice che propone un modello di famiglia e una condizione femminile più rispondente ai cambiamenti della moderna società, ma che non può dirsi certo frutto della secolarizzazione visto che i principi del diritto islamico continuano ad esserne la fonte principale. Una scelta dalla quale non era forse possibile prescindere se l’obiettivo era quello di ottenere un risultato che potesse essere recepito in quanto considerato non estraneo alla cultura locale .
1. F. Cardini, Europa e Islam: storia di un malinteso, Roma-Bari, 2002. p.2.